In tempi di guerra, di confusione, di informazione urlata e parola svuotata, mi chiedo ogni giorno:
cosa resta da dire?
E chi ha ancora il coraggio di dirlo?
Aristofane lo faceva nel V secolo a.C., con la satira più tagliente di tutte.
In Gli Acarnesi, un uomo – Diceopoli – si stanca della guerra e firma una pace tutta sua, privata, ridicola eppur potente.
In Lisistrata, sono le donne a fermare tutto, a bloccare il desiderio, a usare il corpo come ultima possibilità di pace.
Ridevano, sì. Ma ridevano per resistere.
E ridevano con il veleno della verità in bocca.
Poi arriva Brecht, molti secoli dopo. E ci lascia queste parole, che oggi sento più urgenti che mai:
“Anche l’arte del parlare sarà una prova.”
E allora guardo a noi, oggi.
Scrittori, poeti, drammaturghi, pensatori.
Mi domando: dove siete?
In un tempo in cui si affondano barche cariche di donne e uomini, si firmano leggi che feriscono, si cancellano memorie e identità, non possiamo permetterci di tacere.
E non possiamo accontentarci di estetica, algoritmi, cuoricini.
La letteratura – quella vera – è ancora torcia,
è ancora urgenza,
è ancora lotta.
Come editrice, ogni giorno ricevo parole.
Ma oggi vi chiedo qualcosa di più:
scrivete non solo per pubblicare, ma per non scomparire.
Scrivete per chi non può.
Scrivete per ricordare che abbiamo voce.
E allora ho scritto anch’io. Una piccola poesia. Per ricordarvelo. E ricordarmelo.
Non vi chiedo la pace privata
di Anna Giada Altomare
Non vi chiedo la pace privata,
quella che Diceopoli firma col vino,
mentre le città si sbriciolano
e le madri allattano fantasmi.
Vi chiedo la voce.
Quella che Lisistrata alza,
non per comandare,
ma per svegliare il mondo dal suo torpore.
Col corpo, col rifiuto,
con la cura che si fa rivolta.
Oggi siamo donne in poltrona di potere,
ma Lisistrata non voleva il trono.
Voleva tornare a vedere i figli vivi,
gli ulivi pieni, i corpi amati.
Oggi siamo artisti con platee virtuali,
ma Aristofane sputava verità
dalle assi del teatro,
non da una story di otto secondi.
Oggi vi chiedo:
avete ancora parole che fanno tremare le mani?
Storie che sudano,
che battono contro il petto come tamburi?
Scrivetele.
Per chi non può.
Per chi è stato zittito.
Per chi non sa di avere ancora voce.
Perché anche oggi,
nei tempi oscuri,
la letteratura è torcia,
la poesia è pugno,
la pagina è campo.
E io sono qui.
Con una casa piena di storie.
E una domanda che non smette di rimbombare nella mia testa:
Chi parla, adesso?
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Qualcuno dice che
Siamo tutti uguali
Davanti alla morte
Il fatto è che questa cosa non fa breccia
Perché la morte è rimossa
Illusi di essere per sempre
Complici di chi ce lo fa credere
religioni, multinazionali
La morte è degli altri, mai la nostra
e il successo lo dimostra
Per fortuna non è così
Basta guardarsi
guardarsi dentro
guardarsi davvero
Hai paura, vero?
Ecco..sei sulla buona strada
Adesso in silenzio comincia a cambiare..
Mi riprendo la luce
quella di parola
Parola scomoda che svela
e urlo col ventre e con le gambe
per un gentile corpo vestito di bianco
sudario e polvere
sacco candido
unico resto
Io voglio guardare
in faccia
Mi riprendo il canto antico della Madre
origine di ogni cosa
Scrivo di un patto nuovo
Ognuno ha il suo e tutti hanno tutto
Non mio, non tuo, nostro è ogni cosa
Parlo del muto patto degli alberi
delle api e delle tempeste
della Luna nuova e del fuoco
il patto del suono che ha mutato l’universo
Portiamo un diapason in piazza
Uniamo il suono
Accordiamo l’urlo
Accordiamo le parole
quelle proibite
Quelle vere!
Partoriamo cantando, partoriscono gli uomini un’idea nuova, partorisce il lupo e germogliano le spighe.
Che arrivi tra i sibili dei mostri
Eco porta un vento forte
dal bisbiglio al potere
come onda esondi
Il potere del pensiero
Il suono e la luce
su bombe e morte
Non può essere fine?
Solo se restiamo muti
Insieme
Urliamo
Portiamo pace
Vogliamo pace
Vogliamo pace
Vogliamo pace!
I raggi del sole facevano brillare le pietre di Jaffa come se fossero oro fuso.
Il frinire delle cicale di mezza estate si univa al caldo torrido in una nenia antica, una sorta di serenata alla città e alla sua memoria.
Il Mar Mediterraneo rifletteva le mura della città vecchia con la pazienza di uno specchio antico. Si dice che il porto di Jaffa sia il più antico della Palestina, già noto agli Egizi, ma le sue radici scavano la pietra della storia fin dentro l’età del Bronzo Antico.
Jaffa resiste. Non si piega, non si spezza. Si adatta, come chi la abita.
Tra i vicoli assolati della città vecchia si respira l’aroma dolce dei fiori d’arancio: piccoli petali bianchi punteggiano gli alberi bassi e rotondetti, così pieni di frutti e promesse da sembrare sul punto di cedere.
Su quel verde vivo, i fiori risaltano come stelle. Le donne li ricamano sui loro tatreez, con orgoglio, affiancandoli ai rami d’ulivo.
Sotto uno di quegli alberi c’è un ragazzino magro e allampanato.
Tiene il naso all’insù, gli occhi fissi su un ramo basso, dove un grosso gatto nero dorme, la testa sulle zampe, la coda a ciondoloni.
Ai suoi piedi, legati con una vecchia cinghia di pelle, tre libri: I Miserabili di Victor Hugo, L’Amica Geniale di Elena Ferrante, L’Innamorato di Ghassan Kanafani. I primi due tradotti in arabo.
Non sono i libri ad attirare il suo sguardo, però.
Allunga le braccia, si solleva sulle punte, e afferra il gatto. Il felino si lascia sollevare con l’indolenza tipica di chi sa di avere il mondo ai propri piedi.
Dalla torre della moschea di Siksik si alza il richiamo del Maghrib.
Le campane della chiesa di San Pietro rispondono in eco.
— Seth, torniamo a casa, prima che la mamma si arrabbi!
Il gatto sbadiglia, indifferente, e si sistema tra le braccia del ragazzo.
Lui raccoglie i libri, stringe la cinghia e corre via, mentre le voci delle strade iniziano a chiamarlo.
— Naim… la cena non aspetta!
⸻
Mi sveglio con la bocca impastata e la pelle appiccicosa, infastidita dal caldo umido dell’estate pontina.
Solo il ronzio del ventilatore rompe il silenzio della notte.
Nemmeno i gatti dormono con me: chi ha scelto il pavimento, chi il davanzale, chi direttamente il balcone.
Accendo il cellulare.
Scorro distrattamente i social, nel tentativo di riprendere sonno — o forse di perderlo del tutto.
Quasi me lo aspetto: corpi dilaniati, bambini con la pancia gonfia dalla fame, mani nude che scavano tra le macerie. La benzina è finita. Il sistema di aiuti è collassato. Si recupera ciò che si può: un braccio, una gamba.
Anche solo quello basta.
L’importante è avere qualcosa da piangere.
Eppure, ho ancora nel naso il profumo dei fiori d’arancio.
E nelle orecchie un nome: Naim.
Mi basta un gesto per cancellare quelle immagini.
Chiudo l’app e apro il motore di ricerca. Digito il nome.
Naim: felicità, tranquillità. Il nome simboleggia gioia e pace.
Lo dice una pagina bianca, impersonale.
Sorrido, senza sapere bene perché.
Guardo fuori, attraverso quello spiraglio di serranda che lascio aperto contro la calura.
Albeggia. Tanto vale alzarsi.
E con il sole che tinge d’oro le tegole e le antenne, mi porto dietro un pensiero:
voglio visitare Jaffa. Ma non adesso.
Lo farò quando i fiori saranno appassiti e le arance mature.
Quando anche a Gaza, e in tutta la Palestina, sarà sceso il silenzio delle armi.
Quando non sarà più necessario raccogliere i pezzi dei propri cari.
Quando non ci sarà bisogno di essere resilienti, né resistenti.
Resto lì, a contemplare il sogno di una Palestina in pace,
dove gli alberi siano pieni di olive, arance e datteri,
dove ogni persona abbia gli stessi diritti,
la stessa dignità,
la stessa possibilità di sognare.
Ingoio il boccone amaro della verità,
sapendo bene che, per ora, questo rimane solo un sogno.
Ma lo trattengo con cura, come si fa con una piccola scintilla che potrebbe, un giorno, diventare fuoco.
Apro citando Robert Oppenheimer:
“Questo è un mondo nel quale ciascuno di noi, conoscendo i propri limiti, conoscendo i mali della superficialità e i terrori della fatica, deve attaccarsi a ciò che è vicino a lui, a quello che conosce, a quello che può fare, ai suoi amici e alle sue tradizioni e al suo amore, altrimenti si dissolverà in una confusione universale e non saprà nulla e non amerà nulla.”
Potrà sembrare folle il fatto che io abbia deciso di aprire questo discorso con una frase di Oppenheimer (il quale si riferisce a sé stesso come “distruttore di mondi”) ma lasciatemi dire che lui,cosí come altri scienziati che hanno partecipato al progetto Mahnattan, hanno conosciuto,visto e testato la distruzione (sfortunatamente), e questo è un peccato al quale non potranno mai sfuggire. Il mondo non potrà essere lo stesso ora che siamo a conoscenza di come si fabbricano bombe atomiche, tuttavia bisogna aggrapparsi a qualcosa di giusto per resistere,per non rischiare di sfociare nella malvagità, altrimenti l’amore svanisce e subentra solo la distruzione.
A chi scrive. A chi non vuole tacere
Ci avete chiamati, e rispondiamo.
Con parole che non si piegano, con storie che non si adeguano.
“The world’s gone mad, I think I’ve seen enough / But you can’t do anything about it…”
Così cantano i Bastille in World Gone Mad.
Parole attuali, disilluse. Ma noi sappiamo che qualcosa si può fare.
Perché la speranza non è un’illusione: è una scelta, è una pratica.
E a volte prende la forma della cultura.
Di un libro, di una storia, di una voce che rompe il rumore.
È successo anche di recente, quando una giovane ricercatrice palestinese, Aya Ashour, è riuscita a fuggire da Gaza grazie a un ponte costruito dalla cultura.
Un invito accademico, una rete di relazioni, una speranza concreta.
È arrivata in Italia, a Siena, per continuare i suoi studi su pace, diritto e genere.
È la prova che le parole contano.
Che chi scrive può fare la differenza.
Per questo non decoriamo il silenzio con filtri, like o algoritmi. Lo spezziamo. Scriviamo.
Scriviamo per dire il mondo com’è e come potrebbe essere. Scriviamo anche quando fa paura. Soprattutto allora.
Another Coffee Stories è spazio per chi osa parlare quando sarebbe più comodo tacere.
Per chi crede che la cultura non sia solo un ponte mentale, ma anche fisico.
Per chi sa che scrivere è già un atto di resistenza.
Chi risponde?