L'ULTIMO RESPIRO DI GAZA finalmente in tour con Naim Abu Saif

L'ULTIMO RESPIRO DI GAZA finalmente in tour con Naim Abu Saif

Ogni frase che scrivo è un tentativo di medicare una ferita, e ogni capitolo del mio libro L'ULTIMO RESPIRO DI GAZA è un respiro dopo un lungo annegare nel silenzio della guerra.

Queste pagine non sono state scritte con l’inchiostro, ma con la memoria intrisa di polvere e sangue.
Scrivevo nel buio, a volte alla luce di un telefono minacciato di spegnersi, come chi tenta di dimostrare che la propria anima non è stata ancora cancellata dalla terra.
Scrivevo perché la scrittura era l’ultimo ossigeno in un mondo senza aria.

Quando sono arrivato in Italia, a Torino, ho capito che la sopravvivenza non è vita. Il corpo esce dalla guerra, ma l’anima resta lì, smarrita tra le macerie.
Nelle aule universitarie, mentre i professori parlavano di diritto, pensiero e filosofia, sentivo dentro di me la voce di Gaza, come se tra ogni frase e lezione ci fosse un intervallo di sibilo di missili.

Io non scrivo per descrivere la guerra, ma ciò che rimane dell’essere umano dopo di essa.
Scrivo del momento in cui la paura si mescola alla speranza, e della parola che nasce da sotto una pietra spezzata.
Gaza non è il soggetto dei miei racconti, è il mio luogo d’esistenza.
È il fuoco che mi ha fatto credere che la parola sia più forte del bombardamento, e che lo scrittore possa essere l’ultimo a salvarsi, non con il corpo, ma con la voce.

In L'ULTIMO RESPIRO DI GAZA ho cercato di scrivere non della morte, ma dell’ostinazione a vivere di fronte ad essa.
Di una madre che cerca sicurezza per i suoi bambini tra le macerie, e di un giovane che legge nell’oscurità per non dimenticare di essere vivo.
Di una città che respira nonostante le rovine e resiste con un silenzio che somiglia a un miracolo.

Io non rappresento solo Gaza: rappresento il significato universale della sopravvivenza, quel sentimento che spinge l’essere umano a reinventarsi dopo aver visto il volto dell’inferno.
Da lì, tra la polvere e il fumo, ho imparato che la scrittura non è un mestiere, ma una forma di esistenza; e che chi perde tutto scopre che la parola è l’ultima cosa che può essergli strappata.

L’Italia mi ha dato sicurezza, ma la scrittura mi ha dato la vita.
E poi ci sono persone che sono state motivo della mia salvezza, come Anna Giada Altomare.
Qui, nella mia nuova città, scrivo non per fuggire dalla memoria, ma per liberarla.
Scrivo perché Gaza, dentro di me, non è una notizia sugli schermi, ma un battito senza fine.
Ogni testo che scrivo è un tentativo di ricostruire ciò che è crollato dentro di me e ciò che è crollato nel mondo.

Non sono un testimone della guerra, ma uno dei suoi figli che ha deciso di trasformare il dolore in arte e la cenere in un linguaggio che salva gli altri dal silenzio.
Alla fine, L'ULTIMO RESPIRO DI GAZA non è un romanzo sulla distruzione, ma sull’essere umano che insiste a respirare nonostante tutto.
Non è la storia di una città bombardata, ma la storia di un’anima che rifiuta di morire.

E poiché sono sopravvissuto, devo scrivere.
Scrivere non per raccontare ciò che è accaduto, ma per dire al mondo:
tra le macerie può nascere la luce,
e dalla morte può nascere uno scrittore.

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