SCRITTURA CREATIVA: il grande equivoco - Michele Renzullo

SCRITTURA CREATIVA: il grande equivoco - Michele Renzullo

Innanzitutto, cosa si intende per scrittura creativa?

A questa definizione potrebbero corrispondere tanti significati e sfumature diverse. In questo articolo la intenderemo come scrittura narrativa o drammaturgica. Ovvero, una scrittura che ha come fine quello di raccontare una storia, coinvolgendo i sentimenti umani, nonché gli archetipi millenari.

 

Perché dare un’etichetta alla scrittura, come creativa, e distinguerla da una scrittura “ordinaria”?

Questa domanda ne trascina dietro un’altra: perché molte volte persone, anche con un livello di cultura alto e studi letterari alle spalle, risultano impacciati di fronte alla stesura di un romanzo o di un racconto e producono testi che suonano “infantili”?

 

Perché la scrittura, e il linguaggio che abbiamo appreso a scuola, hanno poco a che vedere con la scrittura creativa (e in generale con la creatività).

 

A differenza delle altri arti, dal cinema alla danza, dal teatro alla musica, dove se non frequenti una scuola specialistica (o non vai a bottega) non puoi impadronirti della nomenclatura e delle tecniche di quella disciplina, per la scrittura il discorso è diverso, perché quasi tutti siamo andati a scuola.

E quasi tutti abbiamo appreso le regole grammaticali e sintattiche, che ci permettono di scrivere in corretto italiano.

Ma per la narrativa questo non basta.

La lingua imparata a scuola, che chiamerei “scrittura di servizio”, non ha niente a che vedere con la scrittura creativa, perché la scrittura narrativa implica la conoscenza di tecniche, meccanismi e regole proprie.

E, fino a prova contraria, nella scuola italiana dell’obbligo, ma anche all’università, non si insegna come scrivere un romanzo, un racconto o una novella. Si fa molta teoria e poca pratica.

 

Scrivere per sé o per gli altri?

 

Il romanzo è un mondo che ha regole e meccanismi propri.

Se vogliamo scrivere un romanzo, possiamo certo prendere spunto dalla realtà, ma poi dobbiamo allontanarcene.

Bisogna trovare sempre le conferme all’interno del testo. A fronte di una eventuale critica che ci viene mossa (ad esempio, una battuta di dialogo inefficace, o una scena non credibile) è sbagliato difenderci con “ma è successo veramente!”

Noi dobbiamo convincere il lettore sulla carta.

Il romanzo non è la trascrizione fedele della vita. Ne è una rappresentazione, un’allegoria, una metafora.

Dobbiamo cercare risposte e giustificazioni all’interno del testo.

 

Parlando di riportare fedelmente la vita, ho notato un pattern. Molte persone mi contattano dicendo che vogliono raccontare una storia. E aggiungono subito: è una storia autobiografica. Come se, il fatto che la storia si basi su fatti reali e vissuti dalla persona, avvalori di per sé la storia.

Ma una storia che ha velleità drammaturgiche e narrative, che si voglia presentare di fronte a un ideale lettore o spettatore, ha altre esigenze e priorità. Da un certo punto di vista, al lettore non interessa se la tal cosa vi è capitata veramente. L’importante è che la storia lo emozioni, l’importante è che sia universale, che parli anche di lui, che lo coinvolga a livello emotivo e/o intellettuale.

Quando scriviamo un romanzo autobiografico corriamo sempre il rischio di rimanere ancorati a una sfera privata e personale, e di annoiare mortalmente il lettore.
Ovvero, di non creare quello che Nabokov e Vincenzo Cerami chiamano “mondo immaginario”.

 

Importante è sottolineare come, in un romanzo autobiografico, debbano sempre essere presenti due livelli: quello personale, privato, che rappresenta in modo univoco la tua storia, e il livello universale.

 

Ad esempio:

  • il livello universale potrebbe essere il dolore per la morte di un genitore.
  • Il livello personale è la storia particolare di quando è morto tuo padre

 

In un libro autobiografico, o anche solo in stralci autobiografici, il rischio di annoiare è sempre dietro l’angolo.

 

Ma come non si annoia il lettore e lo si coinvolge emotivamente?

Con la scrittura creativa, appunto, utilizzando tecniche e canoni come la trama, l’intreccio, la costruzione del climax, la gestione del finale, scrivere dialoghi efficaci, etc...

 

Parlando di trama e intreccio, questi rappresentano proprio il cuore della narrazione ed evitano l’effetto spiegone.

Quello che intendo è che a volte mi capita di leggere racconti in cui lo scrittore esordiente vuole spiegare un concetto, una tematica. A un certo punto della narrazione, questa tematica viene proprio esplicitata a livello didascalico.

 

Ma in questo modo corriamo due grossi rischi:

  1. non lasciamo il lettore libero di interpretare la storia, perché vogliamo spiegargli le cose (e questo dipende da una nostra insicurezza autoriale)
  2. L’opera narrativa risulta inutile. È come se avessimo qualcosa da dire, e costruiamo la storia attorno come pretesto per farci ascoltare.

 

Se il tema del racconto è, ad esempio: la libertà ha il sapore delle cose semplici, questo deve essere desunto proprio dalla trama, e non esplicitato dallo scrittore.

 

Tornando alla scrittura autobiografica.

Si potrebbe obiettare che scrivere di per sé è terapeutico e catartico. Ma bisognerebbe prima chiarire se uno intende scrivere per sé, per guarire le proprie ferite, o per un eventuale lettore. Perché nel primo caso, è sufficiente tenere un diario. Inoltre, se un semplice diario può risultare terapeutico, a mio avviso per far sì che scrivendo si compia la catarsi, bisogna compiere una trasformazione alchemica della materia. E lo si fa scrivendo un’opera narrativa o drammaturgica. Un libro nasce solo dall’interazione tra scrittore e lettore.

 

Io consiglio quindi di allontanarsi dall’autobiografia pura. Ma se ancora volete veramente scrivere un romanzo autobiografico, ecco alcune considerazioni:

 

Anche nel romanzo autobiografico il protagonista non siete voi, ma un personaggio letterario che ha le vostre stesse caratteristiche. Non siete voi, ma la rappresentazione letteraria di voi stessi. E allora il personaggio letterario che si muove all’interno del testo avrà lo stesso colore dei vostri occhi, lo stesso taglio di capelli, lo stesso carattere. Persino lo stesso nome. Ma non siete voi in carne e ossa! È il filtro, lo sguardo con il quale vedete voi stessi a rendere la cosa interessante (interessante per voi e per il lettore).

Anche nei casi più eclatanti dove scrittore e personaggio si sovrappongono maggiormente (vedi Bukowski).

 

Questo implica che, ad esempio, non dovrete trascrivere ogni minimo spostamento che fate, dalla cucina al salotto di casa, dal bagno al corridoio, se avete mangiato asparagi oppure carne, a meno che questo non sia significativo.

 

La cosa più importante è lo sguardo dello scrittore. Come nell’esempio tratto da “Gli anni” di Anni Ernaux:

In coda alla cassa del supermercato le capita di pensare a tutte le volte in cui si è trovata così, in fila, con il cestino più o meno pieno di vettovaglie- guarda figure vaghe di donne, sole o accompagnate da figli che trotterellano intorno al carrello, donne senza volto, dissimili solo per la pettinatura – una crocchia bassa, capelli corti, di media lunghezza, a caschetto – e i vestiti – il maxi cappotto degli anni Settanta, trequarti degli anni Ottanta -,e le vede come immagini di se stessa, staccate, disincastrate le une dalle altre come parti di un’unica matriosca.

 

Anche i luoghi attraverso cui vi muovete non sono i paesi che trovate sulla Lonely Planet o su Google Map. Sono una rappresentazione anch’essa di queste ambientazioni. E quello che sarà interessante sarà il punto di vista di chi li vive. Se siete andati a Roma e avete visto il Colosseo, il lettore dovrà vedere il monumento come se fosse la prima volta. Altrimenti non dobbiamo descriverlo in stile Wikipedia.

 

E così ogni cosa che descrivete e decidete di inserire nel vostro romanzo (autobiografico e non). Perché prima di tutto siete voi che scegliete quali avvenimenti citare, quali no, quali oggetti, persone, azioni, mezzi di trasporto, battute, aneddoti.

Ma ricordate che ognuno di essi deve essere trattato come elemento narrativo con una propria funzionalità.

Molte volte, gli elementi narrativi in un racconto sono già tutti presenti, ma sono piatti, privi di valore. Un coltello rimane un coltello, una mano una mano. Dovremmo cercare di andare oltre e trovare un significato aggiuntivo, simbolico o metaforico agli elementi narrativi che, come semi, abbiamo già gettato nel racconto.

 

Esempio tratto da Il caos da cui veniamo, Tiffany McDaniel

“Gli guardai le mani mentre cuciva, facendo passare il filo nella stoffa per fissare il bottone ai pantaloni. Le sue mani erano il marchio della povertà. Le linee del palmo nere di grasso. Le unghie incrostate di terra. Alla gente bastava una sola occhiata a quelle mani per sapere quale posto occupasse nel mondo. Quali lavori facessi e quali no.”

 

Se ci abituiamo a usare il filtro della narrazione, allora un treno potrebbe rappresentare molte cose: l’arrivo, la partenza, la paura, la speranza, la fuga. Se non ragioniamo per elementi narrativi che si muovono in un contesto indipendente – in un mondo letterario dove lettore e scrittore si possano incontrare, un ecosistema unico – rimarremo sempre ancorati a un livello cronachistico di esposizione, in cui raccontiamo i fatti nostri: episodi che non interessano a nessuno.

 

La narrativa e la letteratura non sono la trascrizione della realtà.

Se non affrontiamo il processo per cui dal particolare approdiamo all’universale, la storia rimarrà solo una vicenda personale, priva di interesse e spessore. Senza filtro e rielaborazione, senza che gli elementi diventino simbolici e funzionali alla narrazione, scrivere rimane solo uno sfogo fine a se stesso e non si trasforma in processo terapeutico e catartico.

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