Vivere in campagna o in città? Caos o tranquillità?

Vivere in campagna o in città? Caos o tranquillità?

La diatriba che nasce fra città e campagna vede spesso i fautori della prima salutare l’urbanizzazione come segno del progresso avveniristico, dell’operosità munifica e del dinamismo esaltante; i sostenitori della seconda ricercare invece la pace e la quiete di ritmi e consuetudini più vicini ad una lentezza antica, quando le giornate, i mesi, le attività seguivano la saggezza del sapere contadino, dettata dalla stagionalità della natura. Negli ultimi anni ci siamo sempre più allontanati dalla natura, dimenticandoci di ascoltarla, arrivando a profanarla; forse solo ora che ci sta dando dei chiari segnali di rivolta stiamo prendendo consapevolezza dei mutamenti irreversibili provocati su di essa dalla storia dell’uomo.

Pensando più strettamente al rapporto dialettico fra città e campagna, si può notare come il dibattito fosse molto sentito nel Novecento italiano, quando diversi scrittori si interrogavano circa le peculiarità dell’una e dell’altra, esaltandone i pregi e deprecandone le criticità, basti pensare alla fascinazione dei futuristi per la modernità che la città portava con sé, al ripiegamento intimistico verso il mondo delle “piccole cose” di provincia e di campagna dei crepuscolari, memori della lezione pascoliana, e all’intrepido piglio con cui il superuomo dannunziano si destreggiava nel bel mondo cittadino e aspirava ad una fusione panica con la natura. Diversi scrittori hanno di volta in volta letto il rapporto con il paesaggio in chiave psicologica e antropologica, oppure ne hanno fatto una critica sociale.

Un rapporto psicologicamente e antropologicamente complesso con la campagna è quello di Pavese, che, nel corso della sua carriera letteraria, giunge a darne delle interpretazioni differenti. La campagna per Pavese è il luogo dell’istintualità, della natura che non conosce la civiltà, dell’atemporalità; ma se, in un romanzo come Paesi tuoi (1941), si sottolineava il carattere ferino di questo mondo chiuso nelle sue pulsioni ataviche, nella raccolta di racconti Feria d’agosto (1946) la campagna coincide con l’infanzia, deposito della propria mitologia personale, alla quale bisogna tornare per poter fare poesia.  Per Pavese quindi, come viene anche ribadito ne Il mestiere di vivere (1952), una vigna o una collina contengono gli stampi della propria conoscenza personale del mondo:

Se ne deduce che moltissimi mondi naturali (mare, landa, bosco, montagna, ecc.) non ti appartengono perché non li hai vissuti a suo tempo, e dovendoli poetare non sapresti muoverti in essi con quella segreta ricchezza di sottintesi, di sensi e di appigli, che dà dignità poetica a un mondo.  

L’ultima opera di Pavese, La luna e i falò, (1950) vede invece la campagna rappresentata con un più cupo pessimismo, frutto di un’amara disillusione. Il protagonista Anguilla, tornato dagli Stati Uniti nelle Langhe alla ricerca delle proprie origini, dopo aver visto svanire la sua fascinazione per il “nuovo mondo”, prende duramente consapevolezza di come anche le sue colline siano state schiacciate dal peso della Storia e di come per lui sia ormai vano qualsiasi tentativo di ricongiunzione con la sua terra d’origine, a riprova di un’estraneità universale dell’individuo rispetto al mondo, che rimane indifferente e insondabile.

Una simile concezione del mondo naturale, pensato come vicino all’infanzia e da cui bisogna allontanarsi  per raggiungere la maturità, la si trova ne L’isola di Arturo (1957), il romanzo che valse ad Elsa Morante il Premio Strega. Si possono infatti ravvisare dei punti di contatto fra le colline di Pavese e l’isola di Procida, quell’universo circoscritto e mitico nel quale il protagonista, Arturo, trascorre l’infanzia, ignaro delle leggi del mondo, ancora privo della consapevolezza che fuori del limbo non v’è eliso. La maturazione di Arturo lo porterà irrimediabilmente a lasciare l’isola, ad abbandonare quel luogo al di fuori della Storia, dove era possibile sognare leggendo le gesta leggendarie di intrepidi cavalieri, leggende che lo inducevano a trasfigurare la realtà, facendo del padre Wilhelm un altrettanto eroico avventuriero, costantemente lontano da casa per compiere chissà quali imprese. La presa di coscienza della meschinità del padre, la scoperta del sesso, le opposte pulsioni provate per la matrigna indurranno Arturo a crescere e a recidere il legame viscerale con l’isola-infanzia che lo aveva sempre protetto, quasi ad essere un corrispettivo del grembo materno di quella madre mai conosciuta. Lasciando l’isola Arturo lascia anche la sua innocenza, la sua immaginifica fantasia, la pura sospensione del mito, per approdare alla lucida cognizione della Storia e della civiltà, che si manifesterà con la tragedia della Seconda guerra mondiale.     

Una visione della natura come portatrice di significati reconditi si ravvisa anche in Montale, che fa dell’arido e scabro paesaggio ligure il correlativo oggettivo del prosciugamento interiore, del male di vivere che perdura incessante in giorni sempre uguali. Talvolta però la natura, nelle sue manifestazioni più semplici, come gli alberi dei limoni, appare nel suo aspetto più benevolo e familiare, consentendo all’uomo di vivere dei momenti privilegiati dell’esistenza, che sembrano quasi poter condurre ad un’epifania in grado di disvelare il senso ultimo delle cose. Nel componimento I limoni (1921-1922), il poeta, peregrinando fra fossi, ciglioni e orti, afferma:

Qui delle divertite passioni

per miracolo tace la guerra,

qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza

ed è l’odore dei limoni.

L’epifania sperata in Montale resta però un’illusione ingannevole, legata alla sensazione di un attimo, che svanisce con il ritorno in città, Genova, dove si può scorgere l’azzurro del cielo solo fra i cornicioni delle case, dove la luce in inverno perde la sua lucentezza, lasciando posto all’amarezza e al tedio. Ecco però che la vista dei limoni in un cortile cittadino innesca una rete di ricordi:

Quando un giorno da un malchiuso portone

tra gli alberi di una corte

ci si mostrano i gialli dei limoni;

e il gelo del cuore si sfa,

e in petto ci scrosciano 

le loro canzoni

le trombe d’oro della solarità.   

Il giallo vitale dei limoni questa volta, pur non potendo mostrare una rivelazione metafisica, rievoca la gioia provata in un momento felice, la consolazione di uno stato di grazia, che resta però circoscritta ad un ambito psicologico personale.  

Anche per Pasolini la campagna è un universo arcaico, la cui purezza primigenia può favorire un contatto diretto con il divino e l’eros. Se una raccolta come Poesie a Casarsa (1942) intende proprio valorizzare l’intatto vitalismo della campagna friulana, opere successive, come Le ceneri di Gramsci (1957) o i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) si configurano come una riflessione sui mutamenti della società italiana del dopoguerra, di cui si evidenziano le contraddizioni del progresso borghese - capitalistico. Vi è quindi nelle opere pasoliniane un’accorata nostalgia per la purezza del mondo popolare, che sta assumendo i tratti caratteristici della borghesia a causa del boom economico, e una sentita vicinanza verso gli umili, costretti a subire le trasformazioni politico – sociali dettate dalla classe dirigente. Un mondo in bilico fra quello della campagna e quello del centro cittadino è quello della periferia, delle borgate romane nello specifico, luoghi simbolo dell’urbanizzazione selvaggia del dopoguerra, che toglie spazio alla campagna, ma che ne conserva la sua carica di vitalità quasi barbarica. L’ambiente delle borgate viene indagato in Ragazzi di vita e Una vita violenta, in cui il narratore segue con compartecipazione la vita libera dei suoi giovani protagonisti, misera ma lontana dall’ipocrisia e dal perbenismo del mondo borghese.

Come afferma ne Il pianto della scavatrice, per Pasolini Roma è una:

Stupenda e misera città,

che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci

gli uomini imparano bambini,

[…]

Stupenda e misera

città che mi hai fatto fare

esperienza di quella vita

ignota: fino a farmi scoprire

ciò che, in ognuno, era il mondo

In Roma convergono quindi splendore e miseria, e la vita cittadina, pur decretando una lacerazione con la purezza del mondo contadino, consente all’uomo di scoprire le pieghe della Storia e della maturità, scoperta dolorosa quanto inevitabile.

La periferia di Milano, quella nord in particolare, è invece lo sfondo del ciclo romanzesco I segreti di Milano (1961) di Giovanni Testori. Il realismo dell’autore è volto a rappresentare il rapporto che i personaggi, quasi tutti appartenenti al proletariato e al sottoproletariato, instaurano con la città, individuando così degli spazi sociologici, demografici ed esistenziali. I personaggi intrattengono infatti con il centro cittadino una relazione contrastiva, poiché esso, con le sue seduzioni mondane, richiama a sé coloro che vorrebbero evadere dalla miseria delle case popolari, da un ambiente familiare opprimente e dalla fatica del lavoro in fabbrica, ma mantiene la sua alterità, rimanendo un mondo a cui è possibile accedere solo in specifiche occasioni, come lo svago del fine settimana nei cinema e nei teatri di varietà: 

Così nelle teste di tutti loro che stavano seduti sotto la pergola, a mano a mano uno pronunciava un nome, “San Babila, ecco”, “nei paraggi di via Durini”, “al Re di Picche”, le vie di quel centro, transitate da loro solamente quando passavano sulle motorette o sul tram per andar nei cine di Porta Venezia o al Lirico, si ricomponevano davanti come una serie di nastri partenti a raggio di cuore, cioè da Piazza San Babila, dalla quale scendevano giù, proprio nel mezzo, “dove c’è l’edicola”, loro, le manganone, “quelle come quella del Brianza”.

Tra palestre di boxe, teatri di varietà, balere e camere ad ore, si assiste alla narrazione dei turbamenti interiori di chi si trova a vivere in bilico fra il retaggio della propria origine periferica, spesso contadina, e il vento del progresso che spira dalle città. Il chiuso delle pareti domestiche si configura poi come il luogo della violenza psicologica e della sopraffazione, poiché proprio al suo interno si dipanano i drammi familiari e sentimentali dei personaggi. L’opera di Testori può quindi essere accostata a quella di Pasolini per la riflessone sui mutamenti che le svolte politiche, economiche e sociali del dopoguerra imprimono sul paesaggio e sui suoi abitanti.

Chissà dove ci porterà il dibattito su città e campagna, forse, destinati a vivere in palazzi sempre più alti e in luoghi sempre più affollati tenderemo ad accettare l’urbanizzazione come una necessità inevitabile, ma, in cuor nostro, rimpiangeremo la sensazione di naturale e selvaggia libertà che solo la campagna ci sa dare.     

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ONDE LIEVI - Cesare Rodella

OBISTAR - Alberico Mattiacci

ANNIE SUI TETTI - Another Coffee

 

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2 commenti

Dico che il mio sogno è di trasferirmi in campagna e avere una casa con un piccolo orto e vivere a contatto con la natura. Quindi, tra città e campagna scelgo la campagna (se vicino c’è anche il mare, meglio!) :)

Ivana Ferriol

Ci è consentito scegliere? Sì se volgiamo lo sguardo al presente, difficile se volto al futuro consapevoli delle ripercussioni della crisi climatica sulla popolazione . Quindi?
Come scelta personale un luogo con i pregi di entrambe le situazioni, per i miei figli in rifugio sicuro.

Alessandro Vanzo

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